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L’osteoporosi gravidica raccontata da un papà

Osteoporosi gravidica e Kintsugi. Intervista a L.

L’osteoporosi gravidica spezza una mamma, dentro e fuori, ed è un disastro per tutta una famiglia. Il periodo peggiore è quello delle fratture vertebrali, quando tutto diventa complicato, la mamma si ferma, il dolore la annulla. Ma i bambini ci sono, piangono, non dormono, chiamano e bisogna cambiarli, cullarli, nutrirli, sollevarli. C’è una madre disperata che non è in grado di fare nessuna di queste cose, un bambino che urla e la chiama, il panico, l’assenza di senso, perché un simile scenario non viene raccontato e non è neppure immaginato.

Eppure, la vita trionfa e tutto può tornare intero. Grazie alla persona che è al fianco della mamma. Proprio come nel Kintsugi, l’antica arte giapponese che ci insegna che un oggetto in frantumi può ricomporsi e che le crepe che lo percorrono possono diventare pura bellezza. L’oro, colando lungo le rime di frattura, sigilla i pezzi rotti, colma i punti che non collimano e, come per magia, la coppa torna intera, più preziosa di prima.

Può esserci una magia simile per le mamme con osteoporosi gravidica? Ascoltiamo i papà, che sono persone vere accanto alle mamme rotte. Stanchissimi, impazienti, pazienti, disorientati, che provano a capire, che si chiudono. Ma che ci credono. E lentamente versano l’oro. Ecco le parole di L.

Qual è il tuo punto di vista sull’osteoporosi gravidica? Cosa vive un padre, un compagno?

Il mio punto di vista è molto, molto più tranquillo oggi. Non riesco ad andare totalmente indietro con lo sguardo. La cosa fondamentale che voglio dire e che ho visto di prima mano nella vita normale, che è la cosa più importante secondo me, è che la patologia è reversibile, dal punto di vista della normalità. L’osteoporosi ha i suoi valori, che magari continuano ad essere negativi, poi però c’è la vita quotidiana: uno può essere ingobbito oppure in forma. Le vertebre sono fragili, sono deformate, ma i muscoli possono sostenere, compensare i danni irrecuperabili. Oggi mia moglie è più in forma di prima, potrei dire. Fa più esercizio. È forte. Ok ha l’osteoporosi, ma il corpo, se lo curi, ti protegge. Però è una prospettiva sulla malattia che è arrivata dopo: dopo che la storia si è svolta, dopo aver attraversato il periodo delle fratture. Il fatto negativo principale è non capire cosa sta succedendo: non conoscere la patologia, e poi quando c’è la diagnosi non sapere cosa succederà, non sapere e non capire. Se almeno qualcuno ti spiegasse che osteoporosi e fratture sono due cose diverse, correlate ok, ma diverse. Magari lo spiegano anche, ma riuscire a capire è così difficile in quel momento. Lì per lì pensavo che la patologia fosse la frattura e che andasse sempre peggio, sempre peggio. Lo shock generale di diventare padre, mia moglie che stava male. Se avessi capito che c’era una strada per ritornare in forma, forse sarei stato più lucido.

Qual è stata la cosa peggiore?

Le fratture. L’osteoporosi arriva e continua anche dopo, ma è silenziosa. Il problema sono le fratture, è quello che invalida tutto, che rende tutto così difficile e lento. È la frattura che ti distrugge, che ti spezza. Per lei ti metti il busto. E il busto, che ti protegge la schiena da altre fratture, ti rovina i muscoli. E quindi poi ti devi rimettere in forze, lavorare sulla muscolatura. Guarire dal busto è lento come guarire dalle fratture. Ma la frattura si ricompone.

L’altra cosa terribile era l’assenza di prospettive. Nella mia testa ero sicuramente molto irrazionale, ma davvero pensavo che le cose potessero andare solo peggio. La diagnosi, quando è arrivata, è stata chiara: la prognosi, non lo è stata affatto. Non sarà più autonoma? Dobbiamo cambiare totalmente la nostra vita? Non capire qual era il percorso era scoraggiante. Ed ero impaziente, ero sopraffatto, Non sapevo cosa fare.

Cosa pensavi del dolore che tua moglie riferiva?

Non minimizzavo il mal di schiena di mia moglie, era evidente che il dolore era terribile, che non poteva essere depressione post partum. Purtroppo, però, gli specialisti attorno a noi non capivano cosa stesse succedendo e la situazione peggiorava sempre più. Così è iniziato un pellegrinaggio di medico in medico, ma nessuno di loro centrava il punto – un luminare ci ha parlato di contrattura! Io non sono un medico. Chiedevo: magari facciamo una lastra? Ma il mio giudizio non era quello di un esperto e quindi mi fidavo. Di contro, mi accorgevo della sofferenza vera. Non riuscivo più a orientarmi. Cercavo di restare calmo, perché era straziante vederla così, non sapere come aiutarla e non capire cosa stesse succedendo. La sofferenza era evidente ma gli specialisti di fatto la invalidavano. Fino a quando la diagnosi è arrivata.

É cambiato il tuo punto di vista con la diagnosi?

Nell’immediato, forse non così tanto. Anche se spiegava chiaramente cosa stesse succedendo – Il dolore, causato dalle fratture vertebrali, causate dall’osteoporosi gravidica – non era chiaro cosa sarebbe successo dopo. Infatti, la diagnosi è arrivata senza una prognosi, senza un piano. Forse è una distorsione mia, ma soffrivo il fatto che non ci fosse una prospettiva. Qual è il piano? Non c’era un piano. Non c’erano prospettive. Mia madre stava sempre peggio (L. ha vissuto la perdita della madre proprio nello stesso periodo in cui la moglie era affetta da osteoporosi gravidica, NdR) e mia moglie stava sempre peggio. È stato troppo.

C’è stato qualche momento in cui hai pensato che non ce l’avreste fatta?

A posteriori, no. Ci sono stati molti momenti di scoramento, questo sì. In cui ci siamo isolati, allontanati, mia moglie concentrata su nostro figlio e sul suo dolore, io che cercavo di restare in piedi. Ma la fiducia che saremmo usciti da questa situazione, anche se non c’era un percorso, non si è mai azzerata. Potrei dire che la fiducia è tornata da sé: abbiamo attraversato la malattia e poi, piano piano, le cose sono migliorate e giorno dopo giorno siamo arrivati ad oggi. Lentamente. Ora abbiamo persino un’altra bambina!

Poi, è stata dura gestire le aspettative. Tutto richiedeva aiuto, era lento, era difficile. Questo non me lo aspettavo. Dopo la nascita del nostro secondo figlio il ricordo di quel tempo si è un po’ distorto, perché si sovrappone alla nuova esperienza. Ma la differenza tra le due esperienze è stata lampante: con l’osteoporosi gravidica, anche dopo il grande dolore, ci sono tante piccole cose, piccoli invalidamenti che durano a lungo e che rendono tutto complicato: vai, mettilo nella culla, ma non può metterlo lei, devi arrivare, deve fermarsi tutto: tutta la fase di accudimento diventa farraginosa, impossibile senza aiuto. Nulla di tutto questo te lo aspettavi, prima. Senza contare che le difficoltà logistiche sono devastanti per il rapporto di coppia.

Come è stato per te comunicare l’osteoporosi gravidica all’esterno?

Difficile. Ci sono molti aspetti difficili. Innanzitutto la malattia non è nota: ci sono molte malattie rare, ma questa proprio non la immagini. Era difficile far capire l’osteoporosi? No, tutti hanno un parente osteoporotico. Ma è strano associarla alla nascita di un figlio. Era difficile comunicare le fratture? Tanti sanno cosa vuol dire una frattura vertebrale, magari temono che possa implicare delle disabilità definitive. Però non si riesce a spiegare le due cose insieme e associarle alla gravidanza.

Mancanza di empatia? Direi, piuttosto, mancanza di riferimenti. L’osteoporosi gravidica è una malattia non percepita e, non essendoci un paragone noto, anche se spieghi l’altro non capisce. Se mi rompo i legamenti non scio per un anno. Ma cosa vuol dire busto? Cosa vuol dire frattura vertebrale? Non possiamo venire al mare perché mia moglie porta il busto perché ha fratture vertebrali perché ha l’osteoporosi a causa della gravidanza. Non aveva senso.

Poi c’è il problema organizzativo enorme, anche questo praticamente impossibile da comunicare. Le fratture causano un’invalidità importante, anche se reversibile. Non riesci a farlo capire o a spiegare che improvvisamente devi gestire tutto in modo diverso. Non avevo problemi a dire che mia moglie stava male, ho avuto problemi a far capire cosa avesse.

Cosa sarebbe stato di aiuto?

Che il prossimo fosse più empatico? Dire così lascia il suo tempo… Ma se si fa informazione, se diventa una malattia un po’ più familiare, allora una persona forse riesce a capire cosa sta affrontando la tua famiglia.

Era necessario un supporto logistico a livello di gestione familiare. Benché reversibile, la fase delle fratture invalida tutto e da soli non potevamo farcela. Finché eravamo in Italia abbiamo avuto l’aiuto della famiglia, ma questa è una soluzione che causa anche dei problemi, nonostante le migliori intenzioni: la tua prima genitorialità viene supervisionata, non sei autonomo, le dinamiche interne della famiglia cambiano perché hai bisogno di aiuto continuo, quindi devi accettare l’aiuto e quel che porta con sé, comprese tutte le involontarie interferenze. Poi noi abbiamo lasciato l’Italia, cosa che ci ha messo nella condizione di dover rinunciare all’aiuto di una famiglia, ma di buono c’è che anche la tensione scese. In Spagna, dove ora abitiamo, abbiamo una persona che ci aiuta, retribuita e la situazione è meno empatica, ma più serena.

Forse sarebbe stato utile un supporto emotivo, ma non l’ho cercato, perché mi sono rifugiato nel lavoro. Non sono stato vicino emotivamente a mia moglie come avrei voluto, perché ero sopraffatto dalla situazione. Non le sono stato neppure sempre fisicamente vicino, perché per lavoro ho viaggiato moltissimo. Ancora oggi ho molti dubbi. So di aver ferito la persona che amo. Forse questo ha danneggiato anche direttamente la mia famiglia, ed è stato faticoso, ma è stato anche un sollievo poter andare via. Il periodo della pandemia ci ha aiutati a ricostruire e a bilanciare nuovamente i rapporti familiari.

Con questa esperienza, cosa è cambiato in te, nel tuo modo di essere te stesso, padre, uomo, compagno?

Mi piacerebbe che fosse cambiato questo in me: essere diventato più empatico. Avrei voluto essere migliore di come sono stato, ma era difficile, non avevo la lucidità mentale di adesso. Tra noi due ora c’è più empatia e mi piacerebbe pensare che oggi siamo più forti e più uniti. Ma la lezione più spicciola e meno emotiva è che abbiamo imparato ad aver cura del nostro corpo. A distanza di anni lo vedo chiaramente: da questa terribile esperienza abbiamo tutti e due imparato qualcosa di bello, ad apprezzare la forza, la salute del nostro corpo. A coltivarla.

 

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