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L’osteoporosi gravidica provoca disturbi da stress post traumatico. Ma guarire si può

Torniamo a parlare di salute mentale materna e, in particolare, della sofferenza mentale legata all’osteoporosi gravidica, con la Dr.ssa Chiara Maiorani, la psicoterapeuta che ha guidato il progetto M.A.t.E.RMaternal Adjustement through Empowerment Reorentation.

M.A.t.E.R è un progetto voluto da MAMog e dall’associazione Insieme Onlus, sotto la supervisione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha lo scopo di approfondire il tema della sofferenza mentale legata alla malattia e di testare l’efficacia di un supporto psicoterapeutico per le donne che ne sono affette.
Abbiamo chiesto alla Dr.ssa Maiorani, psicoterapeuta formata in tecniche di processamento dei traumi, di spiegarci più nello specifico in cosa consiste il progetto e quali risultati sono emersi finora. Vediamo, attraverso le sue parole, cosa si rompe dentro una donna, che si trova ad affrontare un’esperienza così dolorosa nell’esatto momento in cui diventa madre, e come ricomporre le fratture interiori.
La salute mentale materna è un tema tanto importante quanto frequentemente sottovalutato. Va sempre considerata e tutelata, che intervengano o meno delle patologie, come nel caso dell’osteoporosi gravidica. Al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, è stata istituita una Giornata Mondiale della Salute Materna (World Maternal Health Day) che si celebra ogni anno il primo mercoledì di maggio.

 

Dr.ssa Maiorani, ammalarsi di osteoporosi gravidica è un trauma?

L’osteoporosi gravidica è una malattia di tipo medico biologico che può senz’altro scatenare sintomi post traumatici.

Innanzitutto, è una patologia di tipo doloroso e l’esperienza del dolore già di per sé è sempre un’esperienza molto traumatica. Il dolore che si sperimenta nel caso dell’osteoporosi gravidica, in particolare, è legato alla rottura delle ossa, spesso della colonna, che è il nostro sistema portante, il nostro asse di equilibrio; quindi, il dolore si accompagna alla sensazione disorientante di non poter stare in equilibrio nel proprio ambiente di vita.

Ad aggravare la situazione c’è, poi, il fatto che tutto ciò avviene in un momento che è già di particolare fragilità per ogni donna, quello della transizione alla maternità.

C’è anche un altro aspetto: essendo una malattia poco conosciuta, il dolore dato dalla rottura delle vertebre viene purtroppo spesso confuso con un dolore di conversione psicosomatica dato dalla depressione post partum. La sofferenza del corpo che ha bisogno di cure di tipo medico non viene creduta, e viene trattata come una depressione, che necessita invece di terapie molto diverse. Dunque, parte del trauma deriva anche dalla negazione da parte dei medici delle cure per trattare il dolore e degli accertamenti necessari a indagare la causa delle fratture.

Ma il ritardo nella diagnosi o peggio la diagnosi errata, frequenti nell’osteoporosi gravidica, costituiscono di per sé un trauma relazionale che si chiama neglect, cioè trascuratezza. Si tratta di un trauma relazionale che può avere un impatto più forte durante la transizione alla maternità, perché è un momento in cui fisiologicamente la neomamma si riconnette alle sue memorie della prima infanzia: un fatto necessario per connettersi profondamente con il suo neonato e decodificarne i bisogni, ma che porta la donna a riconnettersi con una fase della vita in cui può aver provato senso di vulnerabilità e impotenza.

Possiamo sicuramente affermare che la transizione alla maternità è un momento molto delicato nella vita di una donna: probabilmente: è il momento di massima fragilità della sua età adulta.

Tutte queste caratteristiche della malattia rendono l’osteoporosi gravidica un evento dall’impatto fortemente traumatico

Anche in una malattia come l’osteoporosi gravidica, che, come dicevo, è di base una malattia di tipo medico biologico, se non si trattano gli esiti post traumatici, il corpo – o meglio il sistema mente corpo – fa più fatica a guarire, perché la salute è una ed è globale, non c’è una salute della mente e una salute del corpo.

È, infatti, scientificamente provato che gli esiti psicologici dei traumi, anche traumi di tipo fisico, se non trattati possono rallentare la guarigione oltre ad esporre ad altre malattie anche gravi. Questo perché, quando viviamo un’esperienza traumatica, il livello di cortisolo resta sempre alto, il che ha tutta una serie di impatti sul sistema immunitario e sull’omeostasi del corpo che impediscono la guarigione. Gli osteoclasti, ovvero le cellule del metabolismo osseo deputate all’apposizione di nuovo osso, sono tra l’altro di origine immunitaria; quindi, nel caso dell’osteoporosi gravidica, disregolare l’asse del cortisolo significa anche ritardare la guarigione dell’osso e, dunque, rendere più difficile il recupero dalla patologia stessa.

Esattamente, come lei dice molto spesso il dolore legato alle fratture è scambiato per depressione post partum, ma la cosa paradossale è che nel momento in cui viene finalmente individuata la natura fisica del problema nessuno pensa che una donna che sperimenta dolori tanto invalidanti in un momento così delicato della sua vita possa aver bisogno di assistenza psicologica. Come si dovrebbe procedere per dare un supporto psicologico efficace?

L’intervento psicologico dovrebbe avvenire il prima possibile perché aiutando la donna in modo tempestivo a processare il trauma si blocca la cascata di sintomi post traumatici che, se perpetuati nel tempo, possono strutturarsi in un disturbo da stress post traumatico e generare patologie di tipo ansioso, depressivo etc. ma anche altre malattie.

L’intervento tempestivo, oltre a bloccare i sintomi post traumatici, consente anche di liberare risorse. Quando si elabora il trauma, infatti, c’è una crescita post traumatica, un momento in cui le persone prendono consapevolezza di quelle che sono le proprie risorse.

Quando si parla di sintomi post traumatici ci si riferisce, in particolare, ad alcuni cluster quali:

  • L’intrusività che include il pensiero ricorrente anche al di là della propria volontà, agitazione e sogni relazionati
  • L’iperattivazione: la persona vive come se il trauma fosse appena accaduto, come se non fosse passato del tempo. Il cervello registra la minaccia ed attiva tutte le risorse della persona per poter scappare o attaccare. Si tratta di meccanismi molto ancestrali
  • L’evitamento: nel caso dell’osteoporosi gravidica non è possibile in toto perché il dolore è sempre presente e non si può sfuggire. È comunque molto comune sapere di avere delle emozioni rispetto all’evento traumatico e non affrontarle perché sarebbero troppo difficili da gestire
  • L’ideazione negativa su di sé, ovvero attribuirsi delle colpe, sentirsi responsabili per quel che è successo, sentirsi incapaci e di non meritarsi le cose.

Se il trauma non viene processato, i sintomi post traumatici continuano ad essere attivi e possono protrarsi senza limiti di tempo. Il cervello non riesce a mettere una barriera temporale quando c’è un trauma e quindi tutte le volte che il pensiero arriva al di là della mia volontà, evito di affrontare le emozioni etc, parte il cortisolo. Nella mia esperienza clinica mi è capitato di fare delle elaborazioni del trauma anche a 70 anni dall’evento.

Ci parli del progetto M.A.t.E.R., in che cosa consiste?

Abbiamo, in primo luogo, fatto una profilazione delle donne che hanno sofferto di osteoporosi gravidica al fine di valutare il loro stato psicologico e l’opportunità di un intervento psicoterapeutico.

A tal fine abbiamo somministrato a 30 mamme affette dalla patologia un questionario contenente:

  • un test per misurare la depressione post partum
  • un test per misurare il livello d’ansia
  • un test per misurare l’impatto dell’evento traumatico e dunque i sintomi che possono essere emersi dopo il trauma (scala impatto eventi)
  • un test per misurare la salute auto percepita a livello globale.

I risultati hanno tristemente superato le mie aspettative in quanto, soprattutto la scala impatto eventi e il test della salute auto percepita, hanno rilevato una profonda sofferenza mentale delle donne che hanno risposto al questionario. Mi aspettavo sicuramente che ci fossero dei sintomi post traumatici, però quelli rilevati sono stati gravi: questa patologia ha un impatto post traumatico alto.

Qualche numero? Rispetto alla depressione post partum, il 46,7% del campione è risultato superiore al cut off, ovvero al livello normale. Rispetto all’ansia, il 33.3% del campione è risultato superiore al cut off. Rispetto alla scala dell’impatto eventi, che valuta come abbiamo detto la presenza e l’intensità di sintomi post traumatici, il 60% del campione era sopra il cut off. E quanto alla salute auto percepita, è emerso un punteggio medio basso.

In particolare, nell’ambito della scala impatto eventi sono stati rilevati, come sintomi più forti, quelli dell’intrusività: pensieri ricorrenti, contro la propria volontà, e conseguenti emozioni che arrivano e interrompono le giornate. Questo è facile da intuire perché, quando c’è il dolore fisico, è difficile distrarsi. Ma ci sono anche l’irritabilità e la rabbia, nel cluster dell’iperattivazione. Nell’evitamento, c’è il non riuscire a gestire le emozioni che arrivavano dai pensieri intrusivi.

La scala della salute auto percepita evidenzia una grossa discrepanza tra quello che è considerato un punteggio di auto percepita buona salute e i risultati del questionario. Tre gli aspetti più problematici emersi con grande chiarezza:

  • una autopercepita differenza tra il proprio stato di salute e quello delle altre persone
  • la questione del dolore
  • Una grossa riduzione di quelle che sono le attività che normalmente una mamma si aspetterebbe di fare.

I risultati del questionario hanno, pertanto, evidenziato l’opportunità, anzi l’assoluta necessità, di trattare con psicoterapia le donne che hanno vissuto l’esperienza della malattia.

Nell’ambito del progetto M.A.t.E.R. sono state offerte quattro sedute di psicoterapia con incontri di gruppo a dieci delle trenta donne che hanno compilato il questionario utilizzando la tecnica del Deep Brain Reorienting (DBR). Al termine delle sedute è stato proposto a tutte le partecipanti al progetto un secondo questionario volto a valutare l’efficacia della terapia.

Ci parli meglio del Deep Brain Reorienting, come funziona?

Come traumatologi ci siamo sempre molto concentrati sulle emozioni che nel trauma sono appunto disregolate, sono delle emozioni molto forti.

Ambulanza, ho bisogni di

Il Deep Brain Reorienting è, invece, una terapia che parte dalle neuroscienze e si focalizza su ciò che succede prima che si attivino emozioni. In particolare, dalla scoperta che prima di provare l’emozione si attiva una piccola sequenza, una sequenza in cui i nostri organi di senso si orientano verso uno stimolo, parte una tensione di orientamento che, quando lo stimolo non è traumatico, conduce all’emozione. Se invece lo stimolo è traumatico la tensione di orientamento porta allo shock pre-affettivo.

Uno stimolo sensoriale traumatico può essere uno sguardo, una parola, una diagnosi, può essere anche l’atteggiamento del medico che, ad esempio, anziché prescrivere la lastra se ne va; questo in particolare è uno stimolo che attiva l’abbandono: io ho bisogno di cure e non mi vengono date, si attivano delle angosce di morte.

Quando c’è uno shock pre-affettivo, la tensione di orientamento che parte dai muscoli che orientano i nostri sensi – ovvero quelli dietro la testa, intorno agli occhi e sulla fronte – non sfocia subito nell’emozione ma fa attivare altre zone del corpo che possono essere la mandibola, la parte interna degli occhi, soprattutto quando c’è una profonda tristezza, il collo, le spalle, gli arti superiori; può anche esserci una sensazione di brivido oppure di non sentire delle parti del corpo, o la persona, nell’esempio di prima il medico, mi parla e io non sento, come se l’audio fosse spento. Quando il trauma è troppo forte il cervello può attuare anche questi meccanismi dissociativi.

Durante il trattamento con la tecnica del Deep Brain Reorienting si va alla ricerca della sequenza che attiva il trauma, la si ricostruisce, la si rallenta. Così, si dà al sistema mente corpo tutto il tempo che serve per processarla, . Finalmente processata, lo stimolo che avviava la sequenza viene immagazzinato dal cervello con un altro percorso.

Il valore aggiunto del DBR è che si lavora sotto l’emozione, prima delle emozioni; quindi, rispetto ad altre tecniche di elaborazione del trauma basate sulle emozioni è più dolce, non provoca uno stress.

Nella pratica, come avviene la rielaborazione della sequenza?  Ci spieghi meglio

Preliminarmente si decide su quale evento lavorare. Di solito quando si parla di traumi come le fratture da fragilità non c’è un evento ma una catena di eventi (le prime fratture, come la hanno presa i familiari, come mi hanno trattata i medici) tra cui se ne sceglie uno. All’interno della sequenza si sceglie quale stimolo sensoriale è risultato essere più disturbante.

C’è una parte iniziale in cui si fa un lavoro che si chiama grounding (radicamento): la persona viene invitata a concentrarsi sul proprio corpo in relazione a quello che si ha intorno per stimolare il cervello profondo, il tronco encefalico, per diventare consapevoli del fatto che i nostri sensi registrano qualsiasi cosa ed è solo la nostra attenzione che decide cosa ricordarsi.

Il tronco encefalico è una parte del cervello a cui non è masi stata data molta importanza perché si pensava servisse solo per vigilare sulla funzionalità del corpo: la respirazione, la deglutizione etc; invece, ha un fortissimo impatto su tutto il cervello.

Subito dopo si va a guardare dentro l’evento scelto, per identificare lo stimolo, l’aspetto che ha colpito i sensi e che ha prodotto lo shock pre-affettivo. Quale è stata la parte più difficile? Quando ho sentito dolore? Quando ho visto la faccia del medico? Quando ho cercato aiuto e mi è stato detto che dovevo farcela da sola? Possono essere le parole usate, o anche il tono con cui erano state dette.

Cosa è emerso dopo le sedute? Ci sono stati dei dati che hanno colpito particolarmente la sua attenzione?

Inizialmente quando ho visto i risultati della scala impatto eventi, che è appunto la scala che valuta la presenza, l’intensità e la gravità dei sintomi post traumatici, ho temuto che quattro incontri di gruppo potessero essere pochi considerato il quadro emerso, perché naturalmente più forti sono i sintomi più servono incontri per poterli processare tutti.

Ho scelto una terapia di gruppo perché ha una marcia in più, è come connettersi tutte con una stessa grande capacità di autoguarigione, si creano delle sincronie.

Abbiamo formato due gruppi di cinque mamme. Delle 9 mamme di cui è stato possibile confrontare il questionario pre e post sedute (un questionario non è stato possibile confrontarlo perché non coincidevano i codici), 6 mamme avevano una scala impatto eventi sopra il cut off. Dopo i 4 incontri 4 delle 6 mamme sono andate sotto il cut off e una era scesa pur essendo ancora sopra il cut off.

Sono ottimi risultati se valutiamo anche il fatto che siamo sistemi aperti e purtroppo alcune mamme, come emerso dal questionario somministrato dopo le quattro sedute, avevano vissuto eventi negativi o preoccupazioni non relazionate all’osteoporosi gravidica tra la prima compilazione del questionario e la fine del percorso.

Le mamme stesse hanno espresso un punteggio di soddisfazione molto alto in relazione al percorso svolto, con una media di 9.5, e tutte hanno dichiarato che avrebbero consigliato di intraprendere un percorso simile anche ad altre mamme con le stesse problematiche.

Tutte le mamme hanno notato dei cambiamenti nel modo di percepire il corpo, in particolare 3 mamme hanno dichiarato di sentire meno dolore e 2 che si sentono più consapevoli del proprio corpo. Non è un risultato trascurabile quando parliamo di una patologia, come l’osteoporosi, che crea una frattura non soltanto fisica, ma una frattura tra il corpo e la mente.

L’osteoporosi gravidica fratturativa è infatti una condizione di prolungata, estrema, intollerabile sofferenza fisica. Il corpo diviene il tempio del dolore, e la mente produce una specie di distacco, una dissociazione fisiologica dal corpo: cerco di non ascoltare il corpo perché e solo fonte di dolore. Quindi, il fatto che le mamme abbiano ricreato un rapporto con il proprio corpo, incluso il sentire meno dolore, è un grande successo e non è casuale perché queste tensioni, tenendo il corpo nella posizione in cui è avvenuto il trauma, mantengono lo stesso assetto e quindi anche lo stesso dolore. Andando a sciogliere queste tensioni c’è un cambio di assetto, oltre che una liberazione di endorfine durante il trattamento. Ma c’è di più.

Il 77% delle donne che hanno partecipato alle sedute ha anche detto di avere una migliore gestione delle emozioni legate all’impatto del ricordo. Anche questo ovviamente è un grande successo.

Il 66% delle mamme ha infine notato che con la terapia la malattia è diventata meno impattante, insomma, di aver reagito. È quella che chiamiamo crescita post traumatica: quando il trauma, finalmente processato, lascia libera la donna di andare avanti con la sua vita, e questa sperimenta la forza interiore di aver trovato le risorse per superare il trauma in cui fino a quel momento era rimasta impigliata. Una riconciliazione tra mente e corpo, ma anche di una persona ferita con la sua stessa storia. Davvero, una frattura che si ricompone.

Sole e vitamina D

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